È naturale dare un significato agli eventi. Tutti noi lo facciamo, ogni giorno, con etichette date ai figli.

Molto spesso, parlando, si fa riferimento ad un fatto oggettivamente accaduto, e si termina la frase con il significato che noi diamo all’evento: “sei in ritardo” è oggettivo, “hai lasciato i vestiti in giro” è oggettivo, “Lo avevi promesso ma non lo hai fatto” è oggettivo e poi, alla cosa reale, molto spesso, ci attacchiamo una spiegazione del perché sia avvenuto e di solito è una spiegazione che squalifica l’altra persona.

Quindi all’avvenimento oggettivo e reale “Sei in ritardo” si attacca la nostra personale spiegazione “è chiaro che non hai rispetto per me”. All’oggettivo e reale “Hai lasciato i vestiti in giro” ci attacchiamo la nostra personale spiegazione “Perché credi che io sia la tua serva”, e all’oggettivo e reale “Lo avevi promesso ma non lo hai fatto” ci attacchiamo la nostra personale spiegazione “sei sempre inaffidabile”.

Apparentemente, ogni spiegazione appare logica. Di fatto stai mettendo una tua personale etichetta all’evento.

Ogni motivazione che diamo a quei comportamenti ci appare come un’ovvia conseguenza che motiva il comportamento rivelando quanto l’altra persona sia errata.

Ecco che magari, il bambino smette di usare quel gioco dopo poco e ne prende un altro, e l’adulto interpreta quel gesto: “L’ha lasciato in giro; è un disordinato” oppure “Sì è stancato subito del gioco; è scostante”. Così nascono le etichette date ai figli.

Quando ci facciamo un’idea di qualcuno, diventa una convinzione e le convinzioni sono dure a morire. Oltretutto, quando hai una convinzione, tutto ciò che vedi viene interpretato dal punto di vista di quella convinzione lì.

Se una persona l’hai ormai etichettata come antipatica, ogni cosa che dirà la filtrerai come antipatica. Se una persona, nella tua testa la etichetti come inaffidabile, al minimo sbaglio ecco che rafforzi la tua idea su di lui.

Perché ai tuoi figli dai proprio quell’etichetta lì

La prima osservazione che desidero condividere con te è che il giudizio dell’adulto è una proiezione del suo mondo e del suo modo di pensare. 

Se l’adulto è particolarmente attento all’ordine, al bambino che lascia il proprio gioco in giro per prenderne un altro, probabilmente darà come interpretazione di ciò che è avvenuto “L’ha lasciato in giro; è un disordinato”.

Se invece è un adulto che tende ad entusiasmarsi alle cose nuove ma che si annoia rapidamente di ciò che fa oppure, al contrario, se è una persona che per suoi valori personali, una volta che inizia una cosa deve
assolutamente portarla a termine, più che notare il disordine, noterà il fatto che poco dopo lo ha lasciato per dedicarsi ad altro e lo sottolineerà dando una etichetta al figlio dicendo “Sì è stancato subito del gioco; è scostante”.

La verità è che ci possono essere mille altre spiegazioni a tutto ciò che accade ma ognuno interpreta secondo il proprio mondo interiore.

Quando un adulto mette un’etichetta ai figli, o quando un insegnante mette un’etichetta ad uno studente, in realtà sta definendo un proprio punto di vista.

Cerchi conferme alle etichette date ai figli

Seconda considerazione: se ad un gesto diamo un’interpretazione, poi tendiamo a collegare a quell’interpretazione anche tutti gli altri gesti. Una volta data una etichetta ai figli, ogni evento viene considerato come una CONFERMA di quel che si è osservato. Conferma dopo conferma, si crea e rafforza la propria convinzione. 

È così che al bambino vengono applicate le etichette.

Il bambino diventa “un timido” perché quando è andato dalla zia non aveva niente da dire.

Oppure ha preferito stare seduto composto e in silenzio ma la zia gli ha dato il proprio giudizio “è timido”, “è un timido” e magari la mamma ha pure confermato.

In seguito, ogni volta che quel bambino ha fatto qualcosa che richiamava anche lontanamente un atteggiamento di timidezza, ecco che l’etichetta gli è stata riproposta e rinforzata: “Eh, sai, è timido”, “È un timidone“, “Dopo si sblocca ma all’inizio è timido”, “Un po’ come me, anche io ero tanto timida da bambina, e un po’ lo sono ancora”.

La forza delle etichette ai figli

Le etichette ai figli sono affermazioni che si radicano molto profondamente.

Quando queste definizioni vengono dette da un adulto che è un punto di riferimento (un genitore, un insegnante, la nonna che il bambino ama tanto), il bambino si accetta nel giudizio di quell’adulto di cui si fida: “Se lo dicono i grandi, i grandi che sono come degli Dei, infallibili, che sanno tutto, sarà vero”.

Il bambino vi si riconosce in quell’etichetta, ci crede, la accetta, la fa propria. Anche lui inizia a dare quell’interpretazione di sé e più se ne convince più tenderà a interpretare quel che gli succede, attraverso questa interpretazione dei fatti e, quel bambino, si trasforma sempre più, in questo caso in un timido di fatto.

È come se, accettando l’etichetta, la facesse propria ed entrasse nella parte che gli è stata affibbiata, facendola sua per la vita.

  • “Sarà maldestro come suo papà”
  • “È un aggressivo”
  • “È un terremoto”
  • “È svogliato”
  • etc

Come si considerano i tuoi figli?

Come si considerano i figli a cui è stata data un’etichetta?

Ascolta con attenzione come si definisce tu* figli* quando parla di sé: “Io sono bello“ oppure “io sono brutto“, “io sono simpatico“ oppure “io sono lunatico“, “io sono una testa calda“ oppure “sono un accomodante“, “io sono scostante“ oppure “io sono determinato”, “io sono portato per…X“ o “io sono fatto per…X“ piuttosto che “io NON sono portato per…Y“ oppure “NON sono fatto per…Y“.

Come si descrivono i figli quando definiscono se stessi ci svela molto del loro comportamento e, di conseguenza, dei loro risultati. Ad esempio, in caso di difficoltà, colui che si considera “un perseverante” non mollerà, mentre chi si considera “un fallito“ si arrenderà subito e le conseguenze saranno ovviamente ben differenti e indotte dall’idea che hanno di sé.

Ascolta con attenzione come si descrive perché, ciò che dice rivelerà le convinzioni che ha di sé in relazione al mondo.

Dai figli etichettati per molto tempo come “incapaci” anche se hanno prestazioni migliori, se si sono convinti di essere “incapaci”, non cambieranno l’idea di sé, perché nella propria testa hanno un’immagine di un sé “incapace”.

Scardinare le etichette date ai figli

Se le idee che hanno di sé stessi i figli a seguito di etichette ripetute nel tempo, li abbattono, li bloccano, li limitano, occorrerà smantellare queste convinzioni perché sono come un tappo che li blocca condizionandoli.

Purtroppo non basta dire loro “non è vero, non sei così, sei meglio“: occorre sapere come agire e cosa dire perché inizino ad osservare le cose da un diverso punto di vista affinché abbiano dei risultati utili e apprezzabili nel cambiamento delle proprie convinzioni.

Alcuni pensano sia sufficiente fare affermazioni contrarie all’etichetta limitante. A parere mio, se l’aspettativa è quella di dire ad un bambino che è bello, per convincerlo che la sua convinzione di essere brutto è sbagliata, stiamo vaneggiando e l’aspettativa verrà delusa.

Le convinzioni sono radicate e il cambio di convinzioni è un lavoro lungo e quotidiano. Prima, occorre smantellare la vecchia convinzione e la sua solidità, occorre fare in modo che venga messa in discussione. Solo dopo aver fatto questo si potrà sostituire la vecchia convinzione con una nuova.

Una tecnica per modificare le convinzioni dei figli

Una cosa che si può fare, è mettere in discussione le convinzioni dei figli che hanno subito delle etichette limitanti, attraverso una tecnica di PNL (Programmazione NeuroLinguistica) chiamata metamodello.

Se un figlio a cui è stata data un’etichetta si è convinto di essere basso o di essere antipatico o di essere incapace, è inutile dire “non è vero, sei alto il giusto” oppure “non è vero, a me sei simpatico” o “non è vero, sai fare molte cose”, perché non ci crederà.

Il bambino che ha accettato l’etichetta limitante troverà dentro di sé tanti buoni esempi per confermare l’idea che si è fatto. In particolare se sei tu, genitore, a dire ai tuoi figli che si sbagliano a pensarla così, diranno dentro di sé “la mia mamma lo dice, solo perché è la mia mamma” e quindi la convinzione non verrà scalfita.

Il metamodello è lo strumento che permette, attraverso delle domande ben precise ma poste con apparente innocenza e curiosità (non con il tono di chi sta mettendo in discussione l’idea dell’altro) per fare in modo che il figlio metta autonomamente in discussione la propria convinzione. In questo modo inizia a guardare la realtà da un punto di vista differente.

È necessario che compiano da sé il cambio di visione.

Rispondendo alle domande del metamodello arriveranno essi stessi a considerazioni diverse e, i nuovi punti di vista, saranno ritenuti accettabili perché nessuno gli sta imponendo alcunché.

Apparentemente è il frutto di loro ragionamenti, e quindi sarà per loro accettabile e credibile cambiare idea su se stessi.

Per i figli è più facile accettare etichette negative

Desidero condividere con te un’ultima considerazione: essere scadenti costa meno fatica che essere validi.

Essere “casinisti” è per molti più semplice (specie da bambini) che esercitare un autocontrollo.

Essere studiosi è più faticoso che dedicarsi agli hobby e ai giochi (più faticoso e meno divertente).

Essere ligi al dovere è più faticoso che essere indisciplinati.

E anche essere educati comporta la fatica di accettare a applicare delle regole ed è più complicato piuttosto che essere “come capita”. Subire delle etichette svalutanti è, per molti, molto comodo e vantaggioso.

Per i figli è spesso comodo accettare e assecondare l’etichetta svalutante.

  • “Se mi dicono che sono un buono a nulla e lo accetto, ho la scusa per non dovermi applicare con impegno per ottenere buoni risultati”
  • “Se mi dicono che sono un abulico o un fannullone, posso permettermi di stare tutto il giorno sul divano a gozzovigliare, perché sono fatto così, e non posso farci nulla. Fa parte di me, del mio modo d’essere e nulla potrà mai cambiarlo”

Inconsapevolmente, quell’etichetta che limita, diventa uno strumento dietro al quale “godersela”.

Il bambino etichettato come “violento” o come “ritardato” sarà con ogni probabilità un adulto “violento” o con una scarsa propensione al ragionamento o ai guizzi di genio perché, accettando quella definizione, si adatterà.

Genitori, insegnanti e amici, si aspettano che lui sia così e riconoscendosi in quel ruolo, lo metterà in pratica.

Spesso i ragazzi che fanno “casino” in classe quando gli chiedo “perché lo fai?” mi rispondono che è quel che gli altri si aspettano da loro.

Occorre agire sulle loro convinzioni. Noi adulti dovremo cambiare il nostro modo di parlare, senza attendersi risultati immediati perché l’etichetta è diventata “identità” per i figli a seguito di un martellamento durato anni.

Occorre del tempo per cambiare le cose e, con i figli è necessario fare un percorso che inizi poco a poco a fare in modo che si vedano in modo diverso.

 

Fabio Salomoni